PIANO B 4.0 | 3.1 Il riscaldamento globale e le sue conseguenze


Stiamo entrando in una nuova era, un periodo di cambiamenti climatici repentini e imprevedibili. Il nuovo modello climatico standard è il cambiamento. Dal 1880, anno in cui si è iniziato a tenere traccia dell’andamento delle temperature, i 25 anni più caldi sono stati registrati a partire dal 1980, e tra questi, i dieci anni più caldi si sono registrati dal 1996 ad oggi.7

Il riscaldamento è causato dall’accumulo nell’atmosfera di “gas serra” e di altri agenti inquinanti che trattengono il calore. Tra i gas serra, la CO2 è responsabile di circa il 63% dei trend di riscaldamento recenti, il metano ammonta al 18% circa e il protossido di azoto al 6%. Il restante 13% è da imputarsi a una serie di altri gas minori. L’anidride carbonica deriva principalmente dalla produzione di elettricità , dal riscaldamento, dai trasporti e dall’industria. Al contrario la produzione di metano e di protossido di azoto da parte dell’uomo proviene per la maggior parte dall’agricoltura; in particolar modo il metano deriva dalle risaie e dagli allevamenti di bestiame, mentre l’protossido di azoto dall’uso di fertilizzanti azotati.8

La concentrazione atmosferica di CO2, la principale responsabile dei cambiamenti climatici, è aumentata da circa 280 parti per milione (ppm) registrate all’inizio della Rivoluzione industriale intorno al 1760, alle 386 ppm nel 2008. L’incremento annuale del livello di CO2 nell’atmosfera, che ormai è uno degli andamenti maggiormente prevedibili per quanto riguarda le questioni ambientali, è causato dalle emissioni su larga scala, di gran lunga superiori alla naturale capacità  di assorbimento di CO2. Nel 2008 sono state immesse in atmosfera circa 7,9 miliardi di tonnellate di anidride carbonica derivanti dall’utilizzo di combustibili fossili e 1,5 miliardi a causa della deforestazione, per un totale di 9,4 miliardi di tonnellate. La natura è però in grado di assorbirne solo circa 5 miliardi per anno, negli oceani, nel suolo e attraverso la vegetazione; quel che rimane resta quindi nell’atmosfera, facendo innalzare i livelli di CO2.9

Il metano, un potente gas serra, viene prodotto dalla decomposizione di materia organica in condizioni anaerobiche, come avviene negli acquitrini con il materiale vegetale, nelle discariche con quello organico o nello stomaco delle mucche con il foraggio. Si sprigiona metano anche con lo scioglimento del permafrost, il terreno ghiacciato presente sotto la tundra, che ricopre quasi 23 milioni e mezzo di chilometri quadrati alle latitudini settentrionali. In totale, nel suolo artico è presente più CO2 di quanto ve ne sia attualmente nell’atmosfera, il che è piuttosto preoccupante, dato che il permafrost si sta fondendo in Alaska, nel Canada settentrionale e in Siberia, causando la formazione di laghi e liberando metano e anidride carbonica, e tenendo conto anche del fatto che la temperatura in aumento provoca quel fenomeno che gli scienziati chiamano positive feedback loop (iterazione di feedback positivo). C’è il rischio che il rilascio nell’atmosfera di una quantità  massiccia di metano proveniente dallo scioglimento del permafrost possa semplicemente annullare gli sforzi impiegati per stabilizzare il clima.10

Un altro fenomeno inquietante è l’effetto che hanno sul clima le cosidette “nubi atmosferiche marroni” (atmospheric brown clouds, ABC nell’acronimo inglese), costituite di particelle di fuliggine derivanti dalla combustione di carbone, gasolio o legna e che provocano tre reazioni climatiche. Innanzitutto intercettano la luce solare provocando il riscaldamento della parte superiore dell’atmosfera. In secondo luogo, dato che sono anche in grado di riflettere la luce solare, hanno un effetto attenuante, ovvero abbassano la temperatura della superficie terrestre. Infine, se le particelle di queste nubi marroni si depositano su neve e ghiaccio, ne rendono la superficie più scura, accelerandone lo scioglimento.11

Questi effetti destano particolare preoccupazione in India e in Cina, dove le grandi nubi marroni atmosferiche sopra l’altopiano del Tibet stanno contribuendo alla fusione dei ghiacciai d’alta quota che alimentano i principali fiumi asiatici. Il deposito di fuliggine è responsabile dello scioglimento stagionale anticipato delle nevi montane in catene montuose molto differenti tra loro, come l’Himalaya in Asia e la Sierra Nevada in California; lo stesso fenomeno è ritenuto responsabile anche dell’accelerazione della fusione dei ghiacci nel mare della zona artica. Le particelle di fuliggine sono state trovate perfino nella neve dell’Antartico, una regione ritenuta un tempo intatta e non contaminata dall’inquinamento.12

A differenza della CO2, che può rimanere nell’atmosfera per un secolo o anche di più, le particelle di fuliggine contenute in queste nubi vengono trasportate dall’aria solo per alcune settimane. Per questo motivo, una volta chiuse le centrali a carbone, e sostituiti i fornelli a legna dei villaggi con cucine solari, la fuliggine scomparirebbe velocemente dall’atmosfera.13

Se continueremo ad andare avanti senza mettere in atto delle misure di mitigazione, il previsto aumento in questo secolo della temperatura media terrestre tra 1,1 e 6,4 °C appare fin troppo realistico. Queste stime sono le ultime fornite dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), un comitato intergovernativo composto da più di 2.500 scienziati da tutto il mondo, che nel 2007 ha elaborato un documento condiviso sul ruolo determinante dell’uomo rispetto ai cambiamenti climatici. Sfortunatamente nel corso degli anni durante i quali si è svolto questo studio, sia le emissioni totali di CO2, sia la sua concentrazione nell’atmosfera hanno superato le previsioni dello scenario peggiore elaborato dall’IPCC.14

Ogni anno che passa, la richiesta corale per azioni immediate si fa sempre più pressante all’interno della comunità  scientifica. Ogni nuovo rapporto ci rivela che siamo oltre il tempo massimo. Ad esempio, un importante studio del 2009 portato a termine da un gruppo di scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) è arrivato alla conclusione che gli effetti dei cambiamenti climatici saranno due volte più gravi di quelli prospettati non più di sei anni fa, e l’aumento della temperatura di 2,4 °C previsto all’epoca è ora passato a 5,2 °C.15

Un altro studio, elaborato in maniera indipendente come documento di riferimento per i negoziati internazionali sul clima a Copenaghen del dicembre 2009, indica che si devono mettere in atto tutti gli sforzi per contenere l’aumento della temperatura a 2 °C sopra i livelli preindustriali e che un pericoloso cambio climatico viene comunque ritenuto oramai inevitabile. Per contenere l’innalzamento della temperatura a 2 °C, gli scienziati sostengono che l’immissione in atmosfera di CO2 dovrebbe essere immediatamente ridotta del 60-80%, ma dal momento che questo non è realmente possibile, ritengono che “per limitare l’entità  dello sforamento, le emissioni dovrebbero arrivare al picco massimo in un futuro molto prossimo”.16

Gli effetti dell’innalzamento della temperatura sono pervasivi. Temperature più elevate minacciano i raccolti, fondono i ghiacciai montani che alimentano i fiumi, generano uragani più violenti, accrescono la gravità  delle inondazioni, acuiscono i problemi di siccità , sono causa di incendi indomabili più frequenti e devastanti e alterano gli ecosistemi di tutto il mondo.

Con un clima più caldo quello che possiamo aspettarci sono manifestazioni climatiche più estreme. Il comparto assicurativo è purtroppo consapevole della relazione tra le elevate temperature e l’intensità  degli uragani. L’aumento dei rimborsi per danni causati da eventi meteorologici ha portato a un calo dei profitti e a una raffica di abbassamento delle stime sull’affidabilità  creditizia, sia per le compagnie assicurative, sia per le società  di riassicurazione che le sostengono.17

Le assicurazioni che si avvalgono degli archivi storici per calcolare le tariffe assicurative per danni da uragano si stanno rendendo conto che i dati del passato non sono una base attendibile per le previsioni sul futuro. Questo non è un problema che interessa solo le compagnie assicurative, ma anche tutti noi. Stiamo modificando il clima terrestre, dando il via a fenomeni che non sempre comprendiamo e dei quali non siamo in grado di prevedere le conseguenze.

Negli ultimi anni, le ondate di calore hanno causato la diminuzione dei raccolti nelle regioni chiave per la produzione alimentare. Nel 2002 le temperature record e la siccità  che hanno colpito India, Stati Uniti e Canada sono state responsabili di una brusca diminuzione del raccolto di grano per 90 milioni di tonnellate, corrispondenti al 5% in meno della domanda. L’ondata di calore record del 2003 in Europa ha anch’essa contribuito alla diminuzione globale del raccolto, ancora in questo caso al di sotto di circa 90 milioni di tonnellate. Nel 2005, il caldo intenso e la siccità nel Corn Belt statunitense (la cosiddetta “cintura del grano”) ha contribuito a provocare un ammanco di 34 milioni di tonnellate nella produzione mondiale di cereali.18

Ondate di calore così intense hanno causato anche delle vittime: la calura ardente che ha infranto i record delle temperature in Europa nel 2003 ha provocato la morte di oltre 52 mila persone in nove paesi. L’Italia da sola ha perso 18 mila persone, 14.800 i morti in Francia (cifre dedotte dall’aumento del numero di decessi nello stesso periodo dell’anno precedente, ndr). Questa ondata di calore in Europa ha causato 18 volte i morti dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle nel 2001.19

Anche l’estensione delle aree colpite dalla siccità  è aumentata in maniera significativa negli ultimi decenni. Un gruppo di scienziati del National Center for Atmospheric Research (NCAR) ha reso noto che le zone interessate da gravi situazioni di siccità  sono cresciute, passando da meno del 15% negli anni Settanta al 30% circa nel 2002. I ricercatori ne individuano la causa in parte nella riduzione delle precipitazioni, in parte nell’aumento delle temperature, che si fa sempre più significativo verso la fine del periodo di tempo preso in esame. La maggioranza delle zone aride si trova in Europa, Asia, Canada, Africa occidentale e meridionale e nella parte orientale dell’Australia.20

Un rapporto pubblicato nel 2009 dalla National Academy of Sciences statunitense, condotto da Susan Solomon del National Oceanic and Atmospheric Administration, (un’agenzia federale che si interessa di meteorologia, ndr) ha confermato ulteriormente questi dati. Nel rapporto si arriva alla conclusione che se la concentrazione di CO2 nell’atmosfera dovesse aumentare da 385 ppm a 450-600 ppm, in molte aree del mondo si andrà incontro a un’irreversibile riduzione delle piogge nella stagione secca. Lo studio ha paragonato queste condizioni a quelle del periodo delle Dust Bowl statunitensi degli anni Trenta (enormi tempeste di sabbia avvenute in circa dieci anni dal 1930 in poi che causarono una sorta di era desertica, ndr).21

“Le Dust Bowl degli anni ’30”

I ricercatori del Department of Agriculture’s Forest Service, analizzando i dati relativi agli incendi e alle temperature registrati in 85 anni, hanno previsto che l’aumento di 1,6 °C delle temperature estive potrebbe far sì che raddoppi l’area interessata da incendi indomabili negli 11 stati occidentali degli Stati Uniti.22

Il Pew Center on Global Climate Change ha finanziato l’analisi di circa 40 ricerche scientifiche che mettono in relazione l’aumento delle temperature con i mutamenti degli ecosistemi. Tra i vari cambiamenti riportati si riscontra l’arrivo della primavera con quasi due settimane di anticipo negli Stati Uniti, la nidificazione delle rondini arboricole nove giorni prima rispetto a 40 anni fa e lo spostamento verso nord dell’habitat della volpe rossa, che sta ormai invadendo il territorio della volpe polare. Gli Inuit sono rimasti sorpresi dalla comparsa dei pettirossi, uccelli che non avevano mai visto prima. Lo dimostra il fatto che nella loro lingua non esiste un vocabolo per identificare il pettirosso.23

La National Wildlife Federation (NWF) ha reso noto che se le temperature continueranno a crescere, entro il 2040, uno su cinque dei fiumi nord-occidentali che sfociano nel Pacifico sarà  troppo caldo per ospitare salmoni, trote e trote arcobaleno. Paula Del Giudice, direttrice del Northwest Natural Resource Center della NWF, sottolinea che “il riscaldamento globale comporterà  un grave stress per ciò che è rimasto delle zone di acqua fredda della regione, habitat primario per i pesci”.24 Douglas Inkley, NWF Senior Science Advisor e autore esperto di uno studio per la Wildlife Society, fa notare che “ci troviamo di fronte alla prospettiva che il mondo naturale che ora conosciamo, e molti dei luoghi nei quali abbiamo lavorato per decenni alla conservazione delle specie protette e del loro habitat, cesseranno di esistere così come siamo abituati a vederli, a meno che non cambieremo queste previsioni”.25

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