Ci sono molte cose che non sappiamo sul nostro futuro, ma una cosa di cui possiamo essere certi è che il business as usual, l’attuale modello di sviluppo economico, non sopravviverà ancora a lungo. è inevitabile un cambiamento profondo.
“La morte della nostra civiltà non è più una semplice teoria o una possibilità accademica: è la strada che stiamo percorrendo”, dice Peter Goldmark, ex presidente della Fondazione Rockfeller e attuale direttore del programma sul clima presso l’Environmental Defense Fund (EDF). Possiamo trovare un’altra strada prima che sia troppo tardi?1
L’idea che la nostra civiltà si stia avvicinando alla propria fine non è facile da afferrare e tantomeno da accettare. è difficile immaginare qualcosa che non abbiamo mai sperimentato prima. Possediamo a malapena il vocabolario per discutere di questa prospettiva. Sappiamo a quali indicatori economici guardare per scorgere i segni di una recessione, ad esempio una produzione industriale in diminuzione, la disoccupazione in aumento o la fiducia dei consumatori in calo, ma non abbiamo un analogo insieme di indicatori che segnalino il collasso di una civiltà .
Dato il ruolo delle carestie nel declino delle civiltà più antiche, dovremmo tenere d’occhio i prezzi dei generi alimentari e la diffusione della fame nel mondo. Il numero crescente di persone affamate e la mancanza di un piano per affrontare questa situazione dovrebbero essere oggetto di preoccupazione per i leader politici di tutto il mondo.2
La diffusione della fame (con le minacce che ciò comporta) non avviene in un vuoto politico. I paesi ricchi importatori di cereali stanno comprando grandi estensioni di terreni nei paesi più poveri, in una emergente competizione trans-nazionale per il controllo della terra e delle risorse idriche. Questo apre un nuovo capitolo nella geopolitica della scarsità del cibo. Dove porterà tutto questo? Non lo sappiamo, non ci siamo mai trovati in una situazione come questa. Per molti aspetti, l’indicatore più chiaro della gravità di questa situazione è il numero di stati in fallimento. Ogni anno la lista si allunga: quanti stati dovranno collassare prima che la nostra civiltà cominci a cadere a pezzi? Di nuovo, non conosciamo la risposta perché non vi sono precedenti. Il nostro futuro dipende da come riusciremo ad affrontare l’espansione della fame e a evitare che sempre più stati falliscano. Ma questo non potrà accadere se continuiamo con il business as usual.
Invertire questi trend richiederà una mobilitazione di tipo “bellico” su scala mondiale: è quello che chiamiamo Piano B, e questo piano, o qualcosa di simile, è la nostra unica via d’uscita.
Il Piano B prevede massicci interventi per ristrutturare l’economia mondiale e per farlo a una velocità da stato di guerra.
L’analogia più vicina è la mobilitazione degli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale. Ma, diversamente da quel capitolo della storia, quando un singolo paese ristrutturò completamente la propria economia industriale nel giro di pochi mesi, il Piano B richiede azioni radicali su scala mondiale.
I quattro obiettivi del Piano B, stabilizzare il clima, stabilizzare la popolazione, sradicare la povertà e ricostruire i sistemi di supporto naturali dell’economia, sono mutuamente dipendenti e sono tutti imprescindibili se vogliamo ripristinare la sicurezza alimentare.
Sradicare la povertà non è soltanto la chiave per la stabilizzazione demografica e politica, ma dà anche la speranza di una vita migliore. Come ha fatto presente il premio Nobel Mohammed Yunus, fondatore di Grameen Bank, la prima e più importante banca per il microcredito, nel Bangladesh “la povertà porta alla disperazione che spinge la gente a compiere gesti disperati”.3
Stabilizzare la popolazione non solo aiuta a sradicare la povertà , ma rende più facile raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Abitiamo un pianeta finito e stiamo spingendo i sistemi naturali oltre i loro limiti: ogni paese dovrebbero avere una politica di stabilizzazione demografica. Come detto nel capitolo 7, i programmi di assistenza internazionali devono prevedere componenti speciali mirate al soccorso dei paesi che stanno fallendo. Proprio come gli ospedali hanno reparti di terapia intensiva che forniscono speciali attenzioni a chi è gravemente malato, così anche i programmi di assistenza internazionale hanno bisogno di strutture dedicate che si prendano cura degli stati più compromessi.
Dalle analisi sui cambiamenti climatici e sul crescente declino dei sistemi naturali che supportano l’economia, e dalle nostre previsioni sulla disponibilità futura di risorse, sappiamo che il modello economico occidentale non durerà ancora a lungo se continuerà a basarsi sui combustibili fossili, sull’automobile e sull’economia dell’usa e getta. Abbiamo bisogno di costruire una nuova economia, alimentata dalle fonti energetiche rinnovabili, con un sistema di trasporti diversificato e che riutilizzi e ricicli qualsiasi cosa. Possiamo descrivere questa economia nel dettaglio, ma la questione è: come possiamo arrivarci partendo da dove siamo prima che sia troppo tardi?
In effetti è in corso una sorta di competizione tra politica e punti di non ritorno naturali. La politica riuscirà ad agire prima che lo scioglimento dei ghiacciai himalaiani diventi irreversibile? Saremo in grado di fermare la deforestazione in Amazzonia prima che la foresta si trasformi in una landa desolata?
La chiave per costruire un’economia mondiale che possa sostenere il progresso economico è la creazione di un mercato onesto e che dica la verità sui propri costi ecologici. Per crearlo, abbiamo bisogno di ristrutturare i metodi di tassazione riducendo le imposte sul lavoro e alzando quelle sulle emissioni di anidride carbonica e sulle altre attività distruttive per l’ambiente, in modo da incorporare le esternalità nei prezzi di mercato.
Se riusciremo a far dire la verità al mercato, potremo evitare di continuare a essere accecati da un sistema di contabilità difettoso, e che rischia di condurci al fallimento. Come ha osservato à˜ystein Dahle, ex vicepresidente della Enron per la Norvegia e il Mare del Nord, “il socialismo è crollato perché non permetteva al mercato di dire la verità sull’economia. Il capitalismo potrebbe crollare perché non permette al mercato di dire la verità sull’ambiente”.4
Alcuni paesi stanno cominciando a rendersi conto della necessità di un cambiamento coraggioso e sostanziale. Diversi governi, fra cui quelli della Norvegia, del Costarica e delle Maldive hanno annunciato che intendono diventare carbon neutral (neutrali dal punto di vista delle emissioni di CO2) e hanno aderito al Climate Neutral Network, un programma lanciato dal Programma ambientale dell’Onu (UNEP) nel 2008.
Le Maldive, un arcipelago di isole abitato da quasi 385 mila persone e direttamente minacciato dall’innalzamento del livello del mare, sta rapidamente sviluppando le sue risorse eoliche e solari per sostituire i combustibili fossili entro il 2021. Le Maldive e il Costarica sono i primi paesi ad aver adottato un programma di riduzione delle emissioni di anidride carbonica più ambizioso di quello del Piano B.5
Secondo Achim Steiner, direttore esecutivo dell’UNEP, la neutralità climatica è “un’idea i cui i tempi sono maturi, spinta dall’urgente necessità di affrontare i cambiamenti climatici, ma anche dalle abbondanti opportunità economiche che stanno emergendo per coloro che vogliono abbracciare una transizione a una economia verde”. Lo strumento politico di gran lunga più efficace per conseguire la neutralità climatica è la ristrutturazione delle imposte e dei sussidi.6
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