PIANO B 4.0 | 8.4 Ripristinare le riserve ittiche


Per decenni ogni paese ha cercato di salvare specifiche zone di pesca limitando la cattura di determinate specie: talvolta queste regole hanno funzionato, altre volte hanno fallito portando al collasso le riserve ittiche. Negli ultimi anni si sta diffondendo un sistema differente, quello della creazione di parchi o riserve marine, dove la pesca è vietata e che svolgono la funzione di vivai naturali che contribuiscono al ripopolamento dell’area circostante.47

Nel 2002, al Summit mondiale per lo sviluppo sostenibile a Johannesburg, le nazioni costiere si sono impegnate a creare un sistema di riserve marine che arrivi a coprire il 10% delle acque oceaniche del pianeta entro il 2012. Insieme queste aree formerebbero una rete mondiale di parchi marini.

I progressi sono lenti: nel 2006 si contavano 4.500 aree marine protette (Marine Protected Area, MPA) per lo più di ridotte dimensioni, che coprivano 2,2 milioni di chilometri quadrati, equivalenti a meno dell’1% del totale degli oceani. Delle aree coperte dalle MAP, solo lo 0,01% rientrava in una riserva marina dove la pesca era vietata. E un’analisi condotta su 225 riserve marine indicava che solo 12 di queste venivano regolarmente sorvegliate affinché il divieto fosse rispettato.48

I biologi marini hanno scoperto che esistono punti “biologicamente caldi” (biological hotspots), sia nell’oceano che sulla terra ferma, nei quali si concentra una rara biodiversità  di specie viventi. La conservazione degli ecosistemi marini passa per l’identificazione di queste zone e della conoscenza dei presupposti che ne permettono l’esistenza per istituirvi successivamente delle riserve marine.49

Tra le imprese finora più ambiziose nel campo dell’istituzione di parchi marini vale la pena di citarne una negli Stati Uniti e un’altra in Kiribati. Nel 2006 il Presidente degli Stati Uniti, George Bush, ha istituito una riserva marina nel nord-ovest delle Hawaii su un’area di 140 mila miglia quadrate denominata il Papahanaumokuakea Marine National Monument, ed è più esteso della somma di tutti i parchi statunitensi presenti a terra. Vi risiedono più di 7.000 specie marine, un quarto delle quali sono presenti soltanto nell’arcipelago hawaiano. Nel gennaio del 2009, negli ultimi giorni del suo mandato, il Presidente Bush ha dichiarato monumenti nazionali altre tre regioni particolarmente ricche in biodiversità  e situate nelle vicinanze, portando il totale delle aree protette a 195 mila miglia quadrate, con un’estensione superiore allo stato di Washington e dell’Oregon messi insieme. In queste aree monumentali la pesca è sottoposta a vincoli e sono vietate le attività  petrolifere e minerarie.50

All’inizio del 2008 il Kiribati, una nazione su un’isola di 98 mila abitanti situata nel Pacifico meridionale, a metà  strada fra le Hawaii e la Nuova Zelanda, ha istituito quella che al tempo, con una superficie di circa 158 mila miglia quadrate, era la più grande area marina protetta del mondo. Paragonabile alle dimensioni dello stato della California, questa riserva comprende otto atolli corallini, due barriere coralline sommerse e una zona di riproduzione dei tonni.51

Un gruppo di scienziati britannici, guidati da Andrew Balmford del Conservation Science Group della Cambridge University, ha analizzato 83 riserve relativamente piccole e ben gestite, per valutare i costi di esercizio di parchi marini su larga scala. La conclusione è che la gestione di aree marine protette con una superficie pari al 30% degli oceani mondiali costerebbe circa 12-14 miliardi di dollari l’anno. Questa stima non tiene conto dei promettenti ritorni economici legati al ripristino delle riserve ittiche che ne ridurrebbero i costi effettivi.52
Un’opportunità  economica connessa all’istituzione di un sistema mondiale di riserve marine è il possibile incremento della pesca oceanica fino a un valore stimato di circa 70-80 miliardi di dollari all’anno. Balmford ha dichiarato: “I nostri studi dimostrano che saremmo in grado di conservare i mari e le loro risorse per sempre e a un costo minore di quello che affrontiamo oggi per incentivare il loro sfruttamento non sostenibile”.53

Callum Roberts, della University of York e coautore dello studio, ha commentato: “Abbiamo a malapena iniziato a creare parchi marini. Qui, in Gran Bretagna, solo un cinquantesimo dell’1% dei nostri mari è protetto, e solo un cinquantesimo di quest’area è chiuso alla pesca”. Il mare è ancora devastato da metodi di pesca non sostenibili, dall’inquinamento e dallo sfruttamento minerario. L’istituzione di una rete mondiale di riserve marine, una sorta di “Serengeti del Mare”, potrebbe anche portare più di un milione di posti di lavoro. Roberts ha aggiunto che: “Vietare la pesca in alcune zone è il sistema più efficace per permettere agli animali di vivere più a lungo, di aumentare le proprie dimensioni e di moltiplicarsi”.54

Nel 2001 Jane Lubchenco, già  presidente dell’American Association for the Advancement of Science, e attualmente direttore del National Oceanic and Atmospheric Administration, ha pubblicato una dichiarazione firmata da 161 ricercatori marini di primo piano che reclamava un intervento urgente per istituire un network mondiale di parchi marittimi. Attingendo alle ricerche sulle situazioni delle riserve marine, la Lubchenco affermava che: “Nel mondo ci sono realtà  diverse, ma il messaggio di base è lo stesso: i parchi marini funzionano e stanno dando velocemente dei risultati. Non si discute più se sia opportuno creare riserve marine integrali, ma dove farle”.55

I firmatari della dichiarazione sottolineano quanto sia rapido il miglioramento della vita degli organismi marini dopo l’apertura di una riserva. Un caso di studio relativo a una zona di pesca dello snapper (un pesce oceanico della famiglia Lutianidi simile all’orata, ndr), al largo della costa del New England, ha evidenziato che i pescatori, nonostante si fossero violentemente opposti all’istituzione della riserva, ora la difendono avendo constatato che la popolazione locale di snapper è aumentata di 40 volte.

Nell’ambito di una ricerca nel Golfo del Maine, in tre riserve marine (per un totale di 17 mila chilometri quadrati) sono stati proibiti tutti i metodi di pesca che mettono a rischio i pesci del fondale. A sorpresa, il mollusco scallop (un bivalve della famiglia Pectinidi simile alla capasanta, ndr) ha prosperato tanto che la sua popolazione è aumentata di 14 volte negli ultimi cinque anni. Questi incrementi all’interno delle riserve accrescono notevolmente la popolazione ittica al loro esterno. Ben 161 ricercatori hanno osservato che dopo uno o due anni dall’istituzione di un parco marino, la densità  della popolazione ittica aumenta del 91%, la taglia media dei pesci del 31% e la varietà  delle specie cresce del 20%.56

Sebbene l’istituzione di riserve marine sia evidentemente la priorità  assoluta, si rendono necessarie anche altre misure per proteggere gli ecosistemi marini. Una è quella di ridurre i flussi verso il mare di sostanze provenienti da scarichi fognari e dal rapido deflusso di fertilizzanti, che sono responsabili di circa 400 zone morte oceaniche (dead zones), veri e propri deserti degli abissi. Un’altra misura necessaria è quella di ridurre gli scarichi chimici di sostanze tossiche, metalli pesanti e interferenti endocrini direttamente nel mare o indirettamente in atmosfera. Tutte queste sostanze si accumulano nella catena alimentare degli oceani minacciando non solo i mammiferi marini predatori, come le foche, i delfini e le balene, ma anche i grandi pesci come il tonno e il pesce spada, oltre che ovviamente gli umani che se ne nutrono.57

Su una scala più vasta, l’accumularsi di anidride carbonica nell’atmosfera sta causando l’acidificazione degli oceani che potrebbe mettere in grave pericolo ogni forma di vita marina. Il pericolo più imminente è quello che grava sulle barriere coralline, le cui strutture di carbonato di calcio sono altamente vulnerabili al processo di acidificazione che è in corso e che si va aggravando mano a mano che aumentano i livelli atmosferici di anidride carbonica. La protezione delle barriere coralline, le cui acque poco profonde rappresentano indubbiamente dei punti di alta concentrazione di biodiversità  vegetale e animale, dipende dalla progressiva chiusura delle centrali elettriche a carbone, operazione che permetterebbe di raggiungere anche tanti altri obiettivi di tutela ambientale.

In conclusione i governi dovrebbero abolire gli incentivi alla pesca. Una parziale conseguenza di tali sussidi è l’esistenza di talmente tanti pescherecci attrezzati per la pesca a strascico che il loro potenziale predatorio è quasi il doppio di quello possibile in un quadro di pesca sostenibile. Amministrare un sistema di parchi marini che gestisca il 30% delle aree del mare costerebbe in pratica la metà  di quanto si spende oggi in dannosi incentivi ai pescatori.58

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