In molti sostengono che la lotta al cambiamento climatico e alla povertà nel mondo sono le sfide a cui bisognerebbe dare priorità rispetto ad altre questioni come la riduzione dell’inflazione, del debito e della disoccupazione, l’istruzione e le cure sanitarie, l’evitare un conflitto nucleare e l’abbattimento dell’inquinamento atmosferico. Sono tendenzialmente d’accordo, ma ho molti dubbi che ciò potrà mai accadere.
Uno dei comuni denominatori tra la sfida climatica e quella della povertà è che non possono essere risolte dai meccanismi del mercato. La ragione è ovvia: i benefici della stabilizzazione climatica e della lotta all’indigenza si collocano in un futuro troppo lontano perché il mondo degli affari trovi vantaggioso investire oggi in questi interventi. Ben poco accadrà finché qualcuno, e questo qualcuno è con ampia probabilità lo stato, non entrerà in questo scenario, cambiando le condizioni all’interno delle quali si muove il mercato. Il più ovvio tra gli interventi statali sarebbe l’introduzione di leggi sul costo delle esternalità. Molte delle aziende più innovative accoglierebbero con favore iniziative governative come qualche forma di carbon tax o tariffe idriche obbligate. Ma nuove leggi richiedono la maggioranza nei parlamenti, perlomeno all’interno delle società democratiche. E dato che legiferare su questioni ad ampio spettro dà certamente fastidio a qualche gruppo portatore di interessi, spesso non si riesce nello scopo, persino se sul lungo termine ciò comporterebbe un beneficio per la maggioranza delle persone. Di conseguenza, il mondo degli affari non viene supportato da nuove leggi o dall’imposizione di nuovi criteri per la determinazione dei costi. Per questi motivi, affrontare la sfida climatica e quella della povertà non genererà profitti per i privati, e quindi nel breve periodo sarà impossibile giungere a una soluzione.
Ma quando un problema raggiunge una gravità sufficiente e persiste a lungo, lo stato in genere interviene. Prima o poi gli elettori capiscono che è necessario fare qualcosa e accettano di versare le tasse indispensabili per finanziare l’operazione. Per decenni questo è stato il caso della lotta alla povertà, basata su istituzioni finanziate con le tasse dei paesi donatori che gestiscono l’assistenza allo sviluppo. Analogamente, lo stato potrebbe assumere un ruolo centrale nella lotta al cambiamento climatico. Ma ciò potrà accadere solo dopo aver abbandonato l’idea di un sistema commerciale globale di quote di emissioni di gas serra e rimpiazzato questo meccanismo affascinante, ma complicato e impossibile, con una tassa diretta sui carburanti fossili, i cui introiti sarebbero destinati a sviluppare e implementare tecnologie amiche del clima come le energie rinnovabili, l’efficienza energetica nell’edilizia e nei trasporti, la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Possiamo vederne l’anticipazione in una tassa globale sulle emissioni per i viaggi aerei internazionali che avrebbe lo scopo di finanziare gli investimenti in campo climatico ed energetico, nei paesi ricchi e in quelli poveri.
Nell’ambito delle mie previsioni, la società accetterà sempre di più gli investimenti volontari necessari per ridurre le emissioni di gas serra e riconoscerà che non ci sono alternative agli investimenti forzati che diverranno indispensabili per riparare ai danni causati dal clima, sia dopo che sono avvenuti sia per difendersi da ulteriori minacce.
Nel complesso, ciò significa che nei prossimi decenni il governo sarà più presente: un ruolo più ampio per lo stato, tasse più alte e un’ampia quota del PIL destinata agli investimenti. L’altra faccia della medaglia è meno spazio per i consumi e un ruolo ridotto per il mercato, che è una buona cosa per chi ripone fiducia nel ruolo dello stato, e una cattiva notizia per coloro che al mercato sono legati.
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Traduzione Dario Tamburrano